Licenziare costa di più: come annunciato dall’Inps, sale di circa 42 euro a causa dell’inflazione. Scopriamo di più
Aumenta il ticket di licenziamento, come annunciato dall’Inps con il messaggio n. 531 del 2024.
Quest’anno, quindi, costa di più licenziare un dipendente, indipendentemente dalla ragione che ha comportato la risoluzione anticipata del contratto – ma con alcune eccezioni -.
A contribuire all’aumento dei costi per il licenziamento che gravano sul datore di lavoro è l’inflazione: infatti, dal momento che l’importo del ticket di licenziamento dipende da quello della Naspi, anche questo subisce le conseguenze dell’inflazione.
Ogni inizio anno le indennità di disoccupazione vengono rivalutate in base al costo della vita. Un’operazione che avvantaggia chi è disoccupato ma penalizza il datore di lavoro che vede accrescere il costo dovuto in caso di licenziamento.
Cos’è il ticket, quando si paga e quando no
Lo scopo del ticket è disincentivare i licenziamenti, oltre che a contribuire alla spesa di cui si fa carico lo Stato per il pagamento delle relative indennità di disoccupazione.
Per questo motivo il ticket di licenziamento va pagato nei casi di cessazione dei rapporti di lavoro dipendente a tempo indeterminato che possono comportare il diritto alla Naspi.
Di seguito trovate una guida aggiornata sul ticket di licenziamento: dalla risposta alla domanda su quando va pagato, alle informazioni sull’importo aggiornato al 2024.
Il ticket licenziamento è il contributo a carico delle aziende e dei datori di lavoro introdotto dalla cosiddetta riforma Fornero (legge 28 giugno 2012, n. 92, articolo 2, commi da 31 a 35).
È dovuto nei casi di interruzione dei rapporti di lavoro a tempo indeterminato, laddove la causa della risoluzione del contratto di lavoro sia da imputare al datore. Il ticket di licenziamento ha un duplice obiettivo:
-* finanziare la Naspi, l’indennità di disoccupazione che l’Inps, salvo eccezioni, riconosce a chi perde il proprio lavoro;
- scoraggiare i licenziamenti.
Il ticket di licenziamento va pagato quando alla cessazione dei rapporti di lavoro subordinato i dipendenti licenziati potrebbero avere diritto all’indennità di disoccupazione Naspi.
Ricordiamo che la cosiddetta disoccupazione spetta ai dipendenti che perdono l’impiego per cause esterne alla loro volontà; per questo motivo non ne hanno diritto coloro che si dimettono dal lavoro, a eccezione che si tratti di dimissioni per giusta causa.
A riassumere i casi in cui il va pagato il ticket di licenziamento è la circolare Inps n. 40 del 2020:
Nel dettaglio, i datori di lavoro sono obbligati a pagare questo contributo nei seguenti casi:
- licenziamento per crisi finanziaria dell’impresa;
- licenziamento per giusta causa;
- licenziamento per giustificato motivo oggettivo o soggettivo;
- licenziamento del lavoratore con contratto a chiamata;
- licenziamento collettivo, in assenza di un accordo sindacale;
- mancata trasformazione del contratto di apprendistato in contratto a tempo indeterminato;
- dimissioni per giusta causa;
- dimissioni della dipendente in maternità;
- risoluzione consensuale con conciliazione obbligatoria effettuata presso la Direzione territoriale del lavoro.
È bene sottolineare che la riforma Fornero stabilisce che il datore di lavoro ha il dovere di versare il ticket di licenziamento nei casi appena indicati, indipendentemente dal fatto che il dipendente poi usufruisca o meno della Naspi.
Le suddette ragioni si applicano solamente per l’ interruzione di un rapporto a tempo indeterminato. Non si paga il ticket di licenziamento, quindi, nei casi di risoluzione di un contratto a tempo a termine, né quando avviene in anticipo né alla scadenza naturale.
Ma ci sono altri casi in cui il ticket di licenziamento non è dovuto. Ad esempio, non va versato quando si licenzia:
- un collaboratore domestico,
- un operaio agricolo
- un operaio extracomunitario stagionale.
I datori di lavoro sono esenti dal versamento di questo contributo anche per le dimissioni volontarie da parte del lavoratore, oppure se la fine del rapporto lavorativo avviene per la scadenza di un contratto a tempo determinato. Non è dovuto neppure nel caso di decesso del dipendente, come pure per l’interruzione del rapporto di lavoro a tempo indeterminato del dipendente già pensionato.
Infine, l’esonero riguarda anche i licenziamenti avvenuti per cambio d’appalto (ad esempio per le imprese di polizia) e per fine cantiere nel settore edile.
Così come l’indennità di disoccupazione Naspi, anche per il calcolo del ticket di licenziamento bisogna fare riferimento all’anzianità.
L’attuale normativa confermata per il 2024 prevede che il datore di lavoro debba pagare il 41% del massimale mensile Naspi per ogni 12 mesi di anzianità del dipendente negli ultimi 3 anni.
Quindi, considerando che il massimale Naspi, come indicato dalla circolare Inps n. 25/2024, per l’anno corrente è pari a 1.573,86 euro, il contributo dovuto dal datore di lavoro è di 645,28 euro per gli ultimi 12 mesi di impiego, per un importo massimo – per i rapporti lavorativi pari o superiori ai 36 mesi – di 1.935,84 euro.
Qualora la durata del rapporto fosse inferiore a un anno, il contributo dovuto viene rideterminato. Nel dettaglio, bisogna pagare 53,77 euro mensili, moltiplicati ovviamente per il numero di mesi in cui ha avuto luogo il rapporto di lavoro. A tal proposito, va detto che affinché si possa considerare come un mese di lavoro è necessario che il rapporto si sia protratto per almeno 15 giorni.
Non va invece rideterminato il contributo di licenziamento nel caso dei lavoratori impiegati con orario part-time: in questo caso, infatti, le regole per il calcolo sono le stesse previste per i lavoratori full-time e dunque il datore di lavoro deve farsi carico del contributo pieno.
Per il licenziamento collettivo da parte delle aziende rientranti nella Cigs l’importo del ticket anche nel 2024 va calcolato con un’aliquota maggiorata dell’82% (1.290,56 euro per le prime 12 mensilità, 3.871,69 euro per 3 anni). Inoltre, in mancanza di un accordo sindacale questo va moltiplicato per 3; quindi, per i 36 mesi l’importo massimo è di 11.615,08 euro per ciascun lavoratore.
Come specificato dall’Inps nella circolare 44/2013, però, se un lavoratore ha un’anzianità aziendale differente da 12, 24 e 36 mesi il contributo va rideterminato in maniera proporzionale al numero di mesi di servizio.