La ricerca scientifica ha fatto un importante passo avanti, che potrà essere utile a chi ha contratto il morbo di Alzheimer.
La medicina negli ultimi anni ha fatto importanti passi in avanti, al punto tale da rendere guaribili malattie che prima non lo erano o da renere migliori le condizioni di vita di chi ha alcune patologie invalidanti. Determinante è ovviamente la prevenzione, che può verificarsi sottoponendosi a controlli costanti o alla comparsa di alcuni sintomi che possono risultare “sospetti”.
Tra i disturbi che tendono a fare ancora paura quando si riceve la diagnosi c’è il morbo di Alzheimer, soprattutto perché si sa come sia destinata a progredire, fino ad arrivare a non riuscire a riconoscere nemmeno le persone care. Ed è proprio questo quello che fa soffrire, sensazione che viene avvertita anche da chi conosce un malato.
Pensare che l’Azheimer sia una malattia che può essere contratta solo dagli anziani è un errore. Anzi, ci sono purtroppo anche persone che scoprono di averla dai 50 anni in su, ma è proprio in questi casi che la situazione diventa più preoccupante, ben sapendo come in loro la patologia tenda a degenerare più velocemente.
In casi simili si tende a sottoporsi a controlli medici solo quando si inizia a dimenticare ormai sempre più spesso cose o persone, ma in quel momento potrebbe essere già tardi. Non può che essere importante conoscere quali possono essere i fattori di rischio che possono aumentare le possibilità di una diagnosi positiva, così da agire in maniera tempestiva.
Anzi, sulla base di quanto emerso recentemente le prime alterazioni neuropatologiche si rilevano già 19 anni prima l’insorgenza dei sintomi veri e propri. Tra i soggetti che dovrebbero verificare l’andamento della situazione in maniera più frequente sembrano esserci “le persone affette da diabete e da insulinoresistenza della sindrome metabolica”, come riferito da Alessandro Padovani, direttore della clinica di Neurologia e Prorettore alla ricerca dell’Università degli Studi di Brescia a ‘Firenze Today.
Recentemente gli studiosi hanno però fatto un’altra scoperta che non può che essere interessante: ci sarebbero infatti minori probabilità di insorgenza di Alzheimer anche in chi è predisposto se nel suo genoma presenta una variante specifica. Si tratta una variante del gene FN1, responsabile della produzione della fibronectina, una proteina presente in vari tessuti dell’organismo. Questa è presente anche nella barriera-ematoencefalica, la membrana che protegge i vasi cerebrali e ha il compito di gestire il passaggio selettivo di sostanze da e verso il cervello.
Questa variante che sembra ridurre i rischi di sviluppare l’Alzheimer è stata individuata da un gruppo di studiosi della Columbia University nei portatori omozigoti dell’allele APOE ε4, uno dei principali fattori di rischio genetico per la patologia. Nonostante tutto, si sono riscontrate variazioni in questi soggetti nell’età in cui si sono manifestati i primi sintomi, oltre che nella loro gravità.
Anzi, c’è stato anche chi è risultato del tutto sano, nonostante potesse, almeno in linea teorica, sviluppare il morbo.
Agire attraverso lo sviluppo di medicinali ad hoc non può che essere determinante. “Sarebbe necessario rimuovere l’amiloide molto prima – sono le parole del professor Richard Mayeux della Gertrude H. Sergievsky Center della Columbia University e co-autore senior dello studio -. Si può fare questo attraverso il fluss sanguigno, così da poter arrivare allo svlluppo di nuovi farmaci”.
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